
Il dramma delle fughe dal Corno D'Africa
di Michele Tempera
Tra le aree di
provenienza dei profughi che sbarcano sulle nostre coste da diversi anni a
questa parte, l’Africa nord-orientale, il “Corno d’Africa”, è sicuramente tra
quelle che generano un numero di migranti notevolmente alto. In particolare,
gli stati che costringono alla fuga i loro disperati cittadini sono Somalia ed
Eritrea. Tuttavia, anche Egitto, Etiopia e Sudan non dovrebbero essere
trascurati in quanto punti di partenza di migrazioni numericamente ingenti.
Quasi tutti i giovani
di questi paesi aspirano alla fuga dallo stato di appartenenza e crescono
sognando di potere sottrarsi alle disumane situazioni che incontrano nella loro
vita. Una parte di essi non esita a scappare da un destino tragico,
intraprendendo così un viaggio lungo ed estremamente pericoloso che, purtroppo,
non di rado termina con la morte in qualche deserto dell’Africa settentrionale
o nel mare Mediterraneo.
Nonostante un numero
imprecisato di vittime cadute lungo questi viaggi disperati, centinaia di
migliaia di giovani che provengono dal “Corno d’Africa” hanno raggiunto il
continente europeo negli ultimi quindici anni, ma il flusso continuo non sembra
arrestarsi. Infatti, rimangono tutt’ora intatte le cause che spingono questi
ragazzi e ragazze a fuggire da povertà, guerre e soprusi inaccettabili.
Le condizioni di
violenza generalizzate che regnano nell’area sono alimentate, nel loro
complesso e semplificando necessariamente la questione, da guerriglie di
diversa natura e da regimi dittatoriali altrettanto eterogenei. Ad accomunare
queste cause della sofferenza tra la popolazione, c’è l’ingresso scarsamente
controllato di armi e denaro nell’area. L’esempio del regime eritreo è in
questo caso emblematico. Colpito da diversi anni da pesanti sanzioni, esso
continua a sostenersi, militarmente e finanziariamente, soprattutto grazie
all’intervento di stati che non rispettano l’embargo decretato sul commercio di
armi con l’Eritrea. Sebbene non sia possibile stabilire con esattezza l’entità
di questi sostegni, è stato da più parti accertato che la Cina compare tra i
sostenitori, indiretti ma essenziali, del draconiano regime eritreo. Inoltre,
altri paesi forniscono armi all’Eritrea illegalmente dopo averle ricevute
legalmente da altri stati. Il fatto è sostanzialmente accettato dalla comunità
internazionale, la quale condanna con le parole i fatti ma non è assolutamente
in grado di imporre la legalità. L’Onu, paralizzato dalla sua stessa struttura
e dalla cattiva fede dei suoi membri più influenti, preferisce non toccare la
questione in maniera decisiva, esprimendosi in seguito, con dichiarazioni
ufficiali e attraverso interventi sul campo, in merito ai profughi generati dal
regime eritreo stesso. In maniera simile, le risorse economiche a disposizione
di diverse agenzie internazionali dell’Onu sono impiegati per assistere i
profughi, ma nulla di effettivo viene organizzato per interrompere il sostegno
militare e finanziario da parte di alcuni governi senza scrupoli a una delle
dittature peggiori al mondo.
Queste contraddizioni
valgono anche per la Somalia, dove dal 1990 una guerra civile devasta il paese
e la vita dei suoi abitanti. Pur essendo mutata nel corso del tempo in termini
di protagonisti e di modalità che caratterizzano il conflitto, la guerra civile
somala si è sempre nutrita, e si nutre tutt’ora, dei rifornimento di armamenti
e dei traffici illegali che consentono la continuità della guerra civile.
Emblematico in questo caso è il trattamento riservato dalla comunità
internazionale, persino dalla Nato, ai famigerati pirati somali di qualche anno
fa; fenomeno tra l’altro classificabile come frutto avvelenato della situazione
interna alla Somalia stessa e del suo abbandono da parte del resto del mondo.
La pirateria che avveniva ai danni di navi mercantili di tutto il mondo nelle
acque prospicenti il “Corno d’Africa ed in particolare davanti alle coste
somale, è stata sostanzialmente, anche se non completamente, debellata, con un
intervento congiunto ad alta complessità
messo in atto da un elevato numero di stati coordinati tra loro. Esso,
con una quantità relativamente bassa di uso della forza, ha scongiurato
l’amplificarsi del fenomeno e ne ha limitato in maniera notevole gli effetti.
Rimangono le cause, naturalmente, ma l’esempio ci serve come paragone con
quanto accade all’interno della Somalia, dove i traffici commerciali
internazionali da e per lo stretto di Suez non sono minacciati dalle
conseguenze della guerra civile somala. In questo caso gli effetti sono
sopportati dalla popolazione stremata di quelle aree che non destano la prontezza
di intervento dimostrata dalla comunità internazionale con la pirateria verso
le navi mercantili.
I due esempi fatti
sopra nei casi di Eritrea e Somalia, servono per comprendere cosa si muove
sotto la superficie di notizie drammatiche ma totalmente decontestualizzate da
un pensiero unico che non tollera che le sue contraddizioni vengano messe in
luce e denunciate.
Le merci e gli affari
contano più delle persone, a quanto pare, e merci e persone sono stimate come
maggiormente importanti degli esseri umani sia dai paesi che non rispettano la
democrazia (come la Cina) che da quelli che si auto-definiscono democratici
(come gli stati occidentali). Non commettiamo anche noi lo stesso errore nella
giusta scala di valore tra merci e persone, soprattutto ora che siamo in grado
di confrontarci quotidianamente con queste problematiche. Queste ultime sono a
disposizione di chiunque tramite i mezzi di comunicazione tecnologici. Con
ancora più forza ed immediatezza, esse sono arrivate a casa nostra sotto forma
di profughi e rifugiati, per darci una occasione di riscattare la nostra
indifferenza verso le contraddizioni e dagli orrori da noi lontani, come quelli
che accadono in Eritrea ed in Somalia.