
INTRODUZIONE A: IL VALORE DELL'ACCOGLIENZA UMANA E CRISTIANA
“È ormai evidente a chiunque sia dotato di un minimo di intelligenza e di sensibilità che sulla capacità di accoglienza si gioca la nostra condizione di esseri umani o, al contrario, il nostro scivolare sempre più in quella barbarie bestiale che vediamo affiorare qua e là, e che purtroppo fa sempre notizia.” Queste parole forti, il monaco Ludwig Monti le ha dette all’inizio del suo intervento in Cattedrale, a Forlì, in occasione della Giornata della Carità 2016.
Forlì, Cattedrale di Santa Croce, 6 marzo
2016 (IV domenica di Quaresima C) Giornata diocesana della carità
Ludwig Monti Monaco di
Bose
L’ACCOGLIENZA CRISTIANA
Accoglietevi gli uni gli altri
come anche Cristo ha accolto voi, per la
gloria di Dio. (Rm 15,7)
Introduzione: un tema decisivo e cristiano
perché umanissimo
Ringrazio la Caritas diocesana
per l’invito rivoltomi e sono particolarmente
contento di essere qui, al cuore della chiesa locale che mi ha generato
a Cristo. Nell’ambito di questa “Giornata della carità” mi è stato affidato il
compito di meditare insieme a voi sull’accoglienza cristiana. Si tratta
di un tema sempre cruciale, ma in particolare nell’epoca sociale e culturale
che stiamo vivendo. Lo affronterò in chiave assolutamente pre-politica, ma, con
altrettanta convinzione, in chiave cristiana, cioè in chiave umana, umanissima:
Gesù Cristo, infatti, è il Figlio di Dio e il figlio dell’uomo, l’uomo che “ci
ha insegnato a vivere in questo mondo” (cf. Tt 2,12), dunque dopo di lui e in
fedeltà a lui è autenticamente cristiano ciò che è anche autenticamente umano,
secondo l’umanità vissuta e insegnata da Gesù stesso. È ormai evidente a
chiunque sia dotato di un minimo di intelligenza e di sensibilità che sulla
capacità di accoglienza si gioca la nostra condizione di esseri umani o, al
contrario, il nostro scivolare sempre più in quella barbarie bestiale che
vediamo affiorare qua e là, e che purtroppo fa sempre notizia. Proprio
perché viviamo da cristiani nel mondo,
in questa terra che deve essere casa per tutti, la mia riflessione non può non
tenere sullo sfondo l’attualità di questi mesi, di questi anni ormai,
contrassegnata dai flussi migratori, con tutto il loro carico di sofferenza.
Terrò conto anche delle emergenze individuate dal vescovo Lino nel vostro piano
pastorale (oltre ai migranti, le famiglie fragili, i carcerati e i giovani
vulnerabili). Più in generale, però, vorrei fare riferimento a un’istanza che
avverto sempre più come decisiva, nella concreta quotidianità dell’esistenza:
in un tempo in cui vi sono forme di povertà nuove e diversificate, in cui
appare con chiarezza come sia faticoso per tutti il duro mestiere di vivere, è
fondamentale riscoprire l’esigenza della prossimità, del farsi prossimo,
cioè vicino, l’uno all’altro. È sull’impegno quotidiano alla prossimità, l’unico vero antidoto a
quella che papa Francesco ha definito a più riprese “globalizzazione
dell’indifferenza”[1]che
sta o cade anche la capacità di accoglienza. In tutto questo, una nota di
speranza ci viene proprio dall’agire e dal parlare di papa Francesco, profetico e dunque
scomodo. Mi introduco quindi alla riflessione
con una delle sue numerose considerazioni dedicate negli ultimi mesi,
fino all’Angelus di domenica scorsa, alla dimensione più spinosa e
attuale del tema dell’accoglienza
Vorrei soffermarmi a riflettere sulla grave emergenza
migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause, prospettare delle
soluzioni, vincere l’inevitabile paura che accompagna un fenomeno così
massiccio e imponente
I massicci sbarchi sulle coste del Vecchio Continente sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, costruito faticosamente sulle ceneri del secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi … Tuttavia, non ci si può permettere di perdere i valori e i principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca … È importante che le nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i paesi coinvolti nel problema … affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili[2]
In pieno accordo con queste parole, affronterò
il tema dell’accoglienza cristiana in
tre tappe successive:
1. Le radici bibliche dell’accoglienza.
2. Noi e gli stranieri, emblema della diversità da accogliere.
3. Lo stile dell’accoglienza cristiana.
1.Le radici bibliche
dell’accoglienza
Accoglienza è una parola che già
nella sua etimologia contiene un programma di vita. Essa deriva da
“accogliere”, cioè dal latino ad-cum-legere, “raccogliere insieme
verso”. Ma questo non è forse il cammino di noi umani sulla terra? Sempre e
dovunque la nostra vocazione è quella di raccogliere insieme le forze, per
camminare insieme verso il bene comune, verso la gioia condivisa. Insieme,
appunto, senza ascoltare le voci stonate di quegli “imprenditori della paura”
che, per esempio, gridano che gli immigrati, in particolare quelli islamici,
altereranno la nostra identità religiosa
e culturale. Chi fa questi discorsi è un “cattivo maestro”, che teme di essere
derubato di un’identità proprio perché non ce l’ha; o meglio, ne è ignorante,
non la conosce; di conseguenza, non è disposto a pagare il faticoso ma
umanizzante prezzo del dialogo per ciò in cui, in profondità, non crede e di
cui non è convinto.
Le sante Scritture, e al loro
cuore i vangeli, ci presentano un ritratto ben diverso dell’identità del
credente nel Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo, identità strettamente connessa
proprio con la sua capacità di accoglienza. Cosa chiede Dio a quanti sono in
alleanza con lui? Tutti conosciamo il comando presente nel libro del Levitico,
ripreso da Gesù (cf. Mc 12,31 e par.): “Amerai il tuo prossimo come te stesso”
(Lv 19,18). Dimentichiamo però facilmente che, con la stessa forza, Dio ha
ordinato: “Amerai lo straniero come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra
d’Egitto” (cf. Lv 19,34) e similmente: “Amate lo straniero, perché anche voi
siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Dt 10,34).
La motivazione di questo precetto
che chiama all’amore, vertice dell’accoglienza, risiede nel fatto che i
credenti sono costitutivamente stranieri: a partire dalla condizione di
Israele in Egitto, sempre il popolo in alleanza con Dio è straniero e
pellegrino su questa terra. Purtroppo vengono perlopiù taciute nello spazio
religioso le definizioni neotestamentarie dei cristiani che vanno in questo
senso:
Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini (1Pt
2,11).
Nella fede morirono [i nostri padri e le nostre madri]
… confessando di essere stranieri e pellegrini sulla terra (Eb 11,13).
La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come
salvatore il Signore Gesù Cristo (Fil
3,20)
Fino a quell’indimenticabile
ritratto fornito da uno splendido testo delle origini cristiane, l’A
Diogneto che dovrebbe essere ben più meditato da quanti si dicono, appunto, cristiani. È un brano un po’
lungo, ma vale la pena riascoltarlo, perché costituisce, per così dire, la
nostra carta d’identità:
I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né
per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie,
né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di
vita Abitando città greche o barbare,
come a ciascuno è toccato in sorte, e
seguendo le abitudini locali quanto agli abiti, al cibo e al modo di vivere,
mostrano la meraviglia e il paradosso, da tutti riconosciuto, del loro comportamento. Abitano una loro patria, ma come
stranieri (cf. 1Pt 2,11); a tutto partecipano come cittadini e a tutto
sottostanno come stranieri. Ogni terra
straniera è patria per loro, ogni patria è terra
straniera … Trascorrono la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (cf. Fil 3,20).
Obbediscono alle leggi stabilite (cf. Rm 13,1; Tt 3,1)
ma con il
loro modo di
vivere superano le
leggi. Amano tutti
e da tutti
sono perseguitati. Non sono
conosciuti (cf. 2Cor 6,9), eppure sono giudicati; vengono messi a morte e ne ricevono vita. Sono poveri, e
arricchiscono molti; mancano di tutto,
eppure abbondano in tutto (cf. 2Cor 6,10; Fil 4,12). Sono disprezzati,
eppure nel disprezzo trovano gloria (cf. 1Cor 4,10; 2Cor 6,8); vengono calunniati
eppure riconosciuti innocenti. Insultati, benedicono (cf. 1Cor 4,12; Rm 12,14;
1Pt 2,23; Lc 6,28); offesi, rispondono con rispetto. Fanno il bene e sono
puniti come malfattori (cf. At 4,21); castigati, si rallegrano come se
ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come gente straniera, dai greci
perseguitati, e quelli che li odiano non sanno spiegare il motivo della loro avversione, I cristiani
abitano nel mondo, ma non provengono dal mondo (cf. Gv 15,19; 17,11.14.16) Dio
ha assegnato loro una missione così
importante che essi non possono proprio disertare[3]
Chi si riconosce in questo
ritratto, come può chiudersi all’accoglienza di ogni altro essere umano, in
particolare di ogni straniero, sapendo di essere lui stesso, per definizione,
straniero e pellegrino? Addirittura Agostino si è spinto a scrivere che “vero
cristiano è colui che anche nella sua casa riconosce se stesso come “un
viandante, uno straniero”[4].
In ogni caso, se uno sceglie di
praticare una strada di chiusura, deve sapere che non sta trasgredendo un punto
marginale, periferico della sua fede, ma, molto semplicemente, non è cristiano:
non è un cristiano nel mondo, è invece mondano senza essere di Cristo. Ovvero,
rovescia letteralmente quella che è
stata la volontà di Gesù per la sua comunità, quando nel suo testamento
ha pregato il Padre affinché i suoi discepoli fossero “nel mondo senza
essere del mondo” (cf. Gv 17,14-16), proprio come lo è stato lui. Eccoci
dunque alla prassi di accoglienza vissuta da Gesù, che per noi è letteralmente
Vangelo, buona notizia, è il modello a cui tentare di conformarci. Il teologo
francese Christoph Theobald ha ben riassunto il modo di relazionarsi di Gesù
con ogni essere umano sotto la categoria della “santità ospitale”[5];
potremmo anche parlare di“santità accogliente”. C’è un sommario del
vangelo secondo Luca che sintetizza bene il comportamento di Gesù:
[Gesù] accolse
[le folle], parlava loro del regno di Dio e guariva quanti avevano bisogno di
cure (Lc 9,11).
Il suo essere “profeta potente in
azioni e in parole” (Lc 24,19) si radicava proprio nella sua disponibilità e
volontà di accogliere tutti e ciascuno; ma anche – non lo si dimentichi – di lasciarsi
accogliere: “Una donna, di nome Marta, lo accolse, lo ospitò” (Lc 10,38);
“[Zaccheo] lo accolse, lo ospitò pieno di gioia” (Lc 19,6).
Gesù sapeva accogliere e
incontrare veramente tutti, senza pregiudizi né
distinzioni: in primo luogo i poveri, i primi destinatari del Vangelo;
poi i ricchi come Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea (cf. Mc
15,42-43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cf. Mt 8,5-13; Lc
7,1-10) e la donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli uomini
giusti come Natanaele (cf. Gv 1,45-51); i peccatori pubblici e le prostitute
presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola 5 Cf. C.
Theobald, “Il cristianesimo come stile”, in Il Regno-Attualità 14
(2007), pp. 492-493; Id., Il cristianesimo come stile, vol. I, EDB,
Bologna 2009, pp. 49-58. Si veda anche E. Bianchi, Fede e fiducia,
Einaudi, Torino 2013, pp. 65-69 (cf. Mc
2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1). E sia chiaro: Gesù non incontrava
lo straniero in quanto straniero, il povero in quanto povero, il peccatore in
quanto peccatore. Ciò avrebbe significato rinchiudere l’altro in una categoria,
ghettizzarlo. No, Gesù incontrava l’altro in quanto essere umano come lui,
membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro umano. Nell’incontrare e
ascoltare l’altro Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona straniera,
oppure segnata da povertà, da malattia, da peccato… ma solo in un secondo
momento! Nel faccia a faccia con chi incontrava, Gesù sapeva non nutrire
prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro
potesse entrare senza provare paura o sentirsi giudicato; sapeva creare uno
spazio di prossimità e di accoglienza. In breve, Gesù si metteva sempre
innanzitutto in ascolto dell’altro, cercando di percepire cosa gli stava
a cuore, qual era il suo bisogno. In quest’ottica, un tratto affascinante della
persona di Gesù era la sua capacità di risvegliare e far emergere la
fede-fiducia già presente in ogni umano. Quando questa fede viene risvegliata,
liberata dalle tante incrostazioni di cui purtroppo gli eventi della vita la
ricoprono, allora Gesù può affermare: “La tua fede ti ha salvato”. Gesù
non ha mai detto: “Io ti ho salvato”, bensì: “La tua fede ti ha salvato”
(Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42); “Va’, e sia fatto secondo la tua fede” (Mt 8,13); “Donna, davvero
grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (Mt 15,28). Ecco come Gesù rendeva possibile la fede, ecco
come faceva emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua
presenza di uomo affidabile, accogliente e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare,
ma la fede-fiducia di chi a lui si rivolge.
Insomma, Gesù era davvero un uomo
di compassione, capace di sentire-con fino a patire-con, dunque un uomo per il
quale ogni relazione era aperta alla comunione. Solo avvicinandoci all’altro
nel modo insegnatoci da lui, anche noi possiamo vivere un incontro ospitale,
all’insegna della gratuità e teso alla
comunione. Non dobbiamo inventarci nulla. Certo, dobbiamo sempre
accostarci a ogni umano con la fantasia e la creatività del vero amore, che sa
superare gli schemi e sa sempre rinnovare il miracolo dell’incontro. Ma la
traccia, il canovaccio lo abbiamo già; ce li ha forniti Gesù nel famoso
affresco sul giudizio finale riportato dal vangelo secondo Matteo
È la pagina evangelica cui si è ispirata la
tradizione delle opere di misericordia
corporali, che tante volte sentirete menzionare in quest’anno santo. Ma
è anche il testo che, invece di
impaurirci (in base a un’idea distorta del giudizio finale), dovrebbe
rallegrarci, donandoci una semplice ma fondamentale consapevolezza: il giudizio
finale sarà nient’altro che una rivelazione della nostra prassi quotidiana.
Nell’ultimo giorno ci sarà lo svelamento, ma il Signore Gesù ci lascerà
giudicare dal nostro comportamento attuale, non farà che prendere atto delle
nostre azioni vissute qui e ora. Ogni giorno, infatti, noi
provochiamo il giudizio su noi stessi: con il nostro fare il bene o il
male; spesso, più semplicemente, con il nostro omettere di fare il bene… Ecco
la posta in gioco nella nostra prassi o non prassi dell’accoglienza. È ciò che
l’Apostolo Paolo ha saputo sintetizzare in modo mirabile: “Accoglietevi gli uni
gli altri come anche Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio” (Rm 15,7). E
Pietro gli fa eco: “Siate accoglienti, ospitali gli uni verso gli altri, senza
mormorare” (1Pt 4,9). Noi diamo gloria a Dio con la nostra capacità di
accoglierci a vicenda, senza mormorare o lamentarci, a immagine dello stile
vissuto e insegnato da Gesù. Nulla di più semplice, nulla di più esigente…
2. Noi e gli stranieri, emblema della diversità da
accogliere
Avendo posto queste basi alla
nostra riflessione, vorrei ora sostare sull’accoglienza del migrante, dello
straniero, emblema per eccellenza, sempre e dovunque, della diversità da
accogliere. Una prima, elementare considerazione.
Proprio in virtù di quanto proclamato da Gesù nel brano di Matteo appena letto,
per noi suoi discepoli chiudere la porta ai migranti che chiedono aiuto, vuol
dire mettere Cristo fuori dalle nostre vite, dunque non essere più suoi
discepoli: “Ero straniero e non mi avete accolto” (Mt 25,43)! Gesù Cristo si
incontra proprio nella persona dell’altro così diverso, eppure così vicino,
senza tetto né patria, spesso povero ma sempre chiamato a essere riconosciuto
come fratello o sorella. A fronte di tale indiscutibile verità evangelica, fa
tristezza pensare alla nostra memoria corta, che è sempre all’origine della
stoltezza e della miopia: un paese come l’Italia, che per oltre un secolo ha
visto decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei cinque continenti alla
ricerca di un lavoro e di una vita degna di questo nome, nello spazio di un
paio di generazioni si ritrova a percepire l’immigrazione come un morbo da combattere e i migranti come minacce
capaci di destare le più irrazionali paure. Dobbiamo però ricordarlo bene:
l’esperienza dei paesi che da più tempo si confrontano con il problema-risorsa
dell’immigrazione ci mostra che non esistono ricette infallibili e che nessuno
ha la soluzione già pronta, ma nel contempo ci confermano sulla
irrinunciabilità dei principi etici che abbiamo posto alla base della nostra
convivenza civile. Ancora una volta, dunque, l’alternativa non è tra
accoglienza o rifiuto dello straniero ma, a livello umanissimo, tra
civiltà e barbarie. In merito all’accoglienza degli stranieri, non voglio
farvi complessi discorsi biblici o teologici. Mi limito a riflettere ad alta
voce su una parola-chiave, il contributo più proprio di noi cristiani alla
discussione su questo tema: philoxenía, “amore per lo xenós, lo
straniero”. Il padre della nostra fede, “il padre di tutti noi” (Rm 4,16)
Abramo, è un pellegrino, “un arameo errante” (Dt 26,5), che riceve la propria
vocazione nella prima parola rivoltagli dal Signore, quella con cui si apre
la storia della salvezza: “Lekh lekhà,
esci, vattene dalla tua terra, dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti farò vedere” (Gen 12,1). Comincia così il suo essere
nomade, il suo infinito pellegrinare: Abramo è sempre stato “straniero e
forestiero” (Gen 23,4) nella terra di Canaan, e morirà possedendo solo un
piccolo fazzoletto di terreno in cui
collocare il sepolcro per la moglie Sara e per sé (cf. Gen 23; 25,7-11).
Ebbene, proprio per questa sua
condizione di straniero e di migrante, Abramo sa cosa significa accogliere gli
stranieri. Non è un caso che nelle Scritture sia lui l’ospite e il philóxenos
per eccellenza, colui che “ama lo straniero” e lo accoglie nei tre viandanti
fatti sedere alla sua tavola (cf. Gen 18,1-8). Con molta intelligenza la
Lettera agli Ebrei commenta così la
capacità di accoglienza mostrata da Abramo: “Non dimenticate l’ospitalità (philoxenía);
alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2). Sì, chi accoglie
ogni ospite, in particolare uno straniero, accoglie Dio, accoglie Gesù Cristo:
“Ero straniero (xenós) e mi avete accolto” (Mt 25,35). Da sempre i
monaci lo sanno bene[6],
ma ogni credente dovrebbe ricordarlo. Basterebbe riascoltare il monito di
Paolo: “Siate premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,13), traduce la versione
italiana della CEI, ma in realtà alla lettera l’Apostolo dice: “Perseguite la philoxenía”! E un altro testo antico,
la Prima lettera ai Corinti di Clemente di Roma (fine I secolo d.C.) insiste
per ben tre volte: “Per la sua fede e la sua philoxenía fu donato [ad
Abramo] in vecchiaia un figlio … Per la sua philoxenía e la sua pietà
Lot poté fuggire salvo da Sodoma … Per la sua fede e la sua philoxenía
fu salvata Raab la meretrice” (10,7; 11,1; 12,1). Avendo questa attitudine all’ospitalità,
all’accoglienza degli stranieri nel nostro DNA di credenti, ci chiediamo dunque:
come possiamo essere xenofobi noi che per vocazione siamo xenofili? E
comprendiamo meglio la verità delle parole
scritte sessantacinque anni fa da Jean Daniélou, tuttora attualissime:
La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo
decisivo, il giorno in cui lo straniero,
da nemico (hostis) è divenuto
ospite (hospes) … Il giorno in
cui nello straniero si riconoscerà un
ospite e in cui lo straniero sarà rivestito di una singolare dignità, invece
di essere votato
alla maledizione, quel
giorno si potrà
dire che qualcosa sarà cambiato nel mondo[7].
Sta a noi, solo a noi, nella
concreta situazione sociale che viviamo, in questa nostra terra, qui e ora,
affrettare quel giorno, incarnando la nostra fede. Oggi in Italia.come ormai in
tutta l’Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno
migratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, culture, lingue,
religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l’una all’altra, si trovano a
vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a noi. Fenomeno certo non nuovo
quello della migrazione, ma nuova è la
convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l’Europa. La
complessità delle situazioni generate dall’immigrazione provoca una serie di
interrogativi: “Perché vengono da noi? Non possono restarsene a casa loro?
Perché così numerosi? Che ne sarà del nostro modo di vivere e di convivere?”.
Di fronte a tali interrogativi si
impongono alcune constatazioni. Da sempre
non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri a correre
verso il pane; da sempre, quando gli umani hanno speranza di trovare una vita
migliore altrove, sono pronti a tentare l’avventura della migrazione, malgrado
gravi difficoltà. Molte sono le ragioni che spingono migliaia di individui a
lasciare il proprio paese: la miseria che cresce di anno in anno, soprattutto in
Africa, l’insicurezza e la violenza politica che inducono minoranze osteggiate
a cercare asilo altrove – si pensi ai cristiani del medio oriente –, guerre e
lotte etniche che creano profughi e rifugiati… A questo si aggiunga anche il
sogno di molti che vogliono uscire da condizioni economiche penose e partecipare alla vita del “mondo dei
ricchi”, identificato con l’occidente
ricco e consumista.











Un esperto della Legge si alzò per metterlo alla
prova, dicendo: “Maestro, facendo che cosa erediterò la vita eterna?”. Gesù gli
disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai
il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutta la tua forza” (Dt 6,5) e con tutta la tua
mente, e “il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Gli disse: “Hai risposto
bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E
chi è il mio prossimo?” (Lc 10,25-28).
Gesù è molto concreto, di poche
parole: una volta compreso teoricamente ciò che va fatto, lo si deve fare,
senza tante discorsi. Ma il suo interlocutore, un uomo religioso, vuole
giustificarsi, perché non riesce a reggere la semplice e netta responsabilità che Gesù gli ha affidato:
agire, fare azioni d’amore. Allora comincia a
giustificarsi, e non potendo ammettere di non conoscere Dio, pone la
domanda sulla seconda parte del comandamento: “E chi è il mio prossimo?”.
Tenetela bene a mente… In risposta, ecco la parabola di Gesù, che si apre così:
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle
mani dei banditi, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne
andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella
medesima strada e, avendolo visto, passò oltre dalla parte opposta. Anche un
levita, giunto in quel luogo e avendolo visto, passò oltre dalla parte opposta
(Lc 10,30-32).
a)Vedere
Questi versetti introduttivi ci
mettono davanti agli occhi la prima tappa
dell’arte dell’accoglienza: il vedere l’altro, l’accorgersi del
suo bisogno. Pensate solo al vedere, allo sguardo, agli sguardi di Gesù, su cui
si potrebbe fare un’intera conferenza…
Non basta guardare, occorre vedere, essere svegli e vigilanti, restare
consapevoli che nel quotidiano dobbiamo non solo incrociare l’altro, guardarlo
e passare oltre, ma vederlo, con uno
sguardo che sappia leggerlo nella sua identità altra da noi, di fratello o
sorella in umanità. Conosciuto o sconosciuto, l’altro va visto come uno uguale a noi in dignità e umanità.
Vedere, però, è necessario ma non sufficiente, come ci insegna il comportamento
del sacerdote e levita, che vedono e passano oltre
b) Farsi prossimo
Dal vedere può scaturire il
secondo passo: avvicinarsi, farsi prossimo all’altro e così renderlo nostro prossimo.
Invece un samaritano, che era in viaggio, passando
accanto a lui e avendolo visto, fu preso
da viscerale compassione. E gli si fece vicino, prossimo (Lc 10,33-34).
Il samaritano, a differenza degli altri due uomini religiosi, non ha nessun titolo da vantare: è uno straniero, è il nemico religioso, l’eretico per eccellenza. Eppure Gesù lo indica come protagonista positivo della parabola, proprio per insegnare al suo interlocutore, e con lui a ciascuno di noi, che quando si tratta di vivere l’amore non ci sono etichette che tengano, ma ciò che conta è solo lo stare come essere umano accanto a un altro essere umano. Quest’uomo samaritano, dopo aver visto la sofferenza dell’altro uomo, decide di farsi a lui vicino, prossimo. Qui c’è il ribaltamento che costituisce il vertice teologico e antropologico dell’insegnamento di Gesù. Narrativamente lo ha già detto, poi nel dialogo lo esprimerà con la domanda: “Chi di questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è caduto nelle mani dei banditi?” (Lc 10,36). Non dunque: “Chi è il mio prossimo?”, bensì: “A chi io mi faccio prossimo?”. Questa è la vera domanda! Quando scelgo di farmi vicino all’altro, nell’incontro, nella prossimità, nel volto contro volto, occhio contro occhio, si decide la relazione. L’altro non è più lontano, non è più uno tra tanti altri, ma ha un volto di fronte al mio e con il suo volto mi pone una domanda, accende la mia responsabilità. Ma se non faccio questo passo, tutto è già finito prima di iniziare…
c) Sentire, essere preso da viscerale compassione
A questo punto il terzo passo sta
tutto in un verbo, già evocato: “fu preso da viscerale compassione”. È un verbo
straordinario, quasi intraducibile – splanchnízomai in greco – che
indica un sentire non solo con il cuore, ma con le viscere. È significativo che
nei vangeli sia usato 9 volte per Gesù (Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Mt 9,36;
14,14; 15,32; 20,34; Lc 7,13), 1 volta per il samaritano (Lc 10,33), dietro il
quale la tradizione patristica ha letto la figura di Gesù, 2 volte per Dio,
nelle parabole (Mt 18,27; Lc 15,20: il Padre prodigo d’amore, vangelo
odierno!). Nella prossimità si è feriti dalla sofferenza dell’altro, non si può
restare a essa indifferenti, dunque si entra nel movimento della com-passione,
del sentire e del soffrire con,
cioè della misericordia, come il nostro passo viene reso in latino: “misericordia
motus est” (Lc 10,33). E cos’è la misericordia, il cuore per i miseri, se
non l’agitarsi in noi di quei sentimenti profondi che in qualche modo ci
cambiano, ci alterano alla vista del bisogno dell’altro, ci impediscono
quell’indifferenza mortifera che è la tomba di ogni sentimento o moto di
umanità? È qui che si vede se uno ha il
cuore di carne oppure di pietra (cf. Ez 11,19; 36,26), se è egoista e
narcisista oppure se sa riconoscere il bisogno dell’altro fino a provare
empatia, fino a soffrire con lui.
d) Fare
Se si compiono questi tre passi,
allora è quasi naturale l’ultimo: agire, “fare misericordia”,
mani nelle mani, come Gesù chiarisce nella parte finale della parabola.
[Il samaritano] gli fasciò le ferite, versandovi olio
e vino; poi, caricatolo sul proprio
giumento, lo portò in una locanda e si prese cura di lui. Il giorno
seguente, tirati fuori due denari, li diede all’albergatore e disse: “Prenditi
cura di lui e ciò che spenderai in più,
te lo rimborserò io, al mio ritorno” (Lc 10,34-35).
Gesù stesso lo chiarisce
ulteriormente alla fine del dialogo con l’esperto della Legge. Prima, con la sua domanda: “Chi di
questi tre ti sembra si sia fatto prossimo a colui che è caduto nelle mani dei
banditi?” (Lc 10,36), lo porta a rispondere: “Chi ha fatto misericordia a lui”
(Lc 10,37). Poi chiude come aveva iniziato, con la medesima risolutezza: “Va’ e
anche tu fa’ lo stesso” (ibid.). Punto.
Questa è l’accoglienza umana e cristiana: una chiamata a fare misericordia. Ovvero – potreste chiedermi – a fare che cosa, in concreto? La parabola, come abbiamo ascoltato, esprime una serie di azioni, alle quali si possono accostare quelle del Padre prodigo d’amore di Lc 15: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, fu preso da viscerale compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò … Poi disse ai servi: ‘Presto, portate qui il vestito più bello e vestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello, quello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa’” (Lc 15,20.22-23).
Azione varie, diversificate, che
ci dicono che non esistono ricette o schemi
prestabiliti. Anzi, quando si decide di fare, si può solo sapere che ha
inizio l’arte dell’incontro; arte che
non sappiamo dove ci porterà, arte che richiede nuove tappe: l’ascolto
dell’altro, la sospensione del giudizio, la simpatia, l’empatia, il dialogo, il
mangiare insieme, il lasciarsi e poi ritrovarsi, senza mai accampare
pretese sull’altro… Personalmente, mi
permetto solo un piccolo suggerimento, sotto forma di domanda: per praticare
davvero azioni di accoglienza, non potremmo cominciare con l’aprire le porte
delle nostre case, con l’accogliere l’altro nella nostra casa, facendo a lui
spazio nel nostro spazio, mangiando con lui intorno a una tavola, guardandoci
negli occhi, invece di chiuderci dietro porte, muri, barriere, cancelli, confondendo l’intimità necessaria con un
isolamento protetto da barriere invalicabili, che alla fine ci lascia più soli
e tristi? In ogni caso, si tratta di fare ciò che possiamo fare – né di
più né di meno –, di compiere azioni
sempre in modo diverso e creativo, per venire in aiuto di chi è nel bisogno,
guardando a lui e non a se stessi. Azioni che – ci dice Gesù – hanno due
caratteristiche fondamentali: sono un avere cura, un prendersi cura
dell’altro, e sono “transitive”, nel senso che coinvolgono anche un
terzo (qui l’albergatore, in Lc 15 i
servi). Azioni che – aggiungo – dovrebbero essere anche belle: perché
solo ciò che è bello è veramente buono!
Nessun protagonismo della carità, dell’accoglienza, ma una carità intelligente,
bella, libera e liberante, un agire in modo da creare un circolo virtuoso, in
cui si possa affidare ogni altro alla communitas, a un tessuto di accoglienza fatta insieme, condivisa, data e
ricevuta.

Conclusione
L’arte dell’accoglienza umana e
cristiana deve sempre aprirsi al novum, all’inatteso, alla creatività
dell’amore. Guai a noi se facciamo schemi o predisponiamo piani pastorali
troppo rigidi! Per questo, in conclusione, mi piace raccontare in altro modo la
fine della parabola del samaritano. Mi ispiro a un’idea del mio priore Enzo
Bianchi: Non voglio essere irriverente
né contraddire le parole del vangelo, ma credo che proprio esse mi autorizzino
a mutare leggermente l’ultima parte della parabola …
La verità dell’accoglienza
cristiana è tutta qui: nel cammino della prossimità. “Accoglietevi gli uni gli altri come anche
Cristo ha accolto voi, per la gloria di Dio” (Rm 15,7), ci ha ammoniti
l’Apostolo. Facciamoci prossimo gli uni agli altri, come Cristo, lui che è il
samaritano, si è fatto prossimo a noi, oso parafrasare alla luce del vangelo.
Il vero nome
dell’accoglienza cristiana è prossimità.
Ecco perché dovremmo sentire ogni giorno
nel nostro cuore il Signore Gesù Cristo che così implora ciascuno di noi:
“Fatti prossimo al tuo fratello, alla tua sorella in umanità, allontana da te
ogni tentazione di indifferenza, e io sarò sempre con te”. Ovvero, ogni giorno
il Signore ci chiede, mi chiede solo questo: “Ti sei fatto prossimo al tuo
fratello, alla tua sorella?”. Tutta la
nostra vita sotto il sole è nient’altro che la risposta a questa unica,
quotidiana, eterna domanda. Tutta la nostra vita, tutta la nostra accoglienza è
la responsabilità di questa risposta.
[1] A partire dal suo viaggio a Lampedusa dell’8 luglio 2013.
[2] Francesco, Discorso in occasione degli auguri del corpo
diplomatico accreditato presso la Santa Sede
(11 gennaio 2016).
[3] A Diogneto 5,1-2.4-6.9-17; 6,3.10.
[4] “Ipse est christianus, qui et in domo sua … peregrinum se esse cognoscit”: Agostino, Discorsi 111,4.
[5] Cf. C. Theobald, “Il cristianesimo come stile”, in Il Regno-Attualità 14 (2007), pp. 492-493; Id., Il
cristianesimo come stile, vol. I, EDB, Bologna 2009, pp. 49-58. Si veda anche E.
Bianchi, Fede e fiducia,
Einaudi, Torino 2013, pp. 65-69.
[6] Cf. Regola di Benedetto 53,1: “Tutti gli ospiti siano accolti al loro arrivo come Cristo in persona, poiché egli dirà: ‘Ero forestiero (hospes) e mi avete accolto’ (Mt 25,35)”. 7 J. Daniélou, “Pour une théologie de l’hospitalité”, in La vie spirituelle 367 (1951), p. 340
[7] Daniélou, “Pour une théologie de l’hospitalité”, in La vie spirituelle 367 (1951), p. 340.
[8] E. Lévinas, Etica e infinito, Castelvecchi, Roma 2012, p. 97.
[9] 9 E. Bianchi, Raccontare l’amore. Parabole di uomini e
donne, Milano, Rizzoli 2015, pp. 57-58.
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